Day 1 – Welcome to Africa
30 settembre 16:03
Vista mare. Anzi, vista oceano. Sole alto nel cielo, temperatura che supera i 30 gradi e skyline di Dakar che si staglia contro il cielo in lontananza, leggermente offuscato dalla cappa di umidità.
E’ questa la cornice del ristorantino di Baby sulla spiaggia di Toubab Dialaw.
Io e i miei 3 compagni di viaggio – Gianluca, Filippo e Marco – ci siamo accomodati sul patio decorato con conchiglie e pietre colorate, circondato da un muretto di mattoncini a vista che si affaccia direttamente sugli scogli.

Ristorantino di Baby sulla spiaggia di Toubab Dialaw
Ci troviamo nel luogo più “occidentale” del villaggio: il rumore delle onde si confonde con la musica alla radio e sotto il nostro naso brochette de lottes cotti sul momento (spiedini di coda di rospo) stimolano l’acquolina.
Con mio grande stupore il nostro pranzo è spesso interrotto da insistenti venditori ambulanti che entrano nel patio cercando di vendere qualunque cosa, nulla di diverso da una qualsiasi spiaggia italiana.
L’arrivo
Abbiamo lasciato ieri Milano per passare 3 settimane come volontari presso il centro di accoglienza gestito dall’associazione “I bambini di Ornella“, fondata nel piccolo villaggio senegalese di Kelle da un pensionato di Como – Severino – e sua figlia Laura.

Bagagli all’aeroporto di Dakar
Siamo atterrati questa notte all’1 locale all’Aéroport International de Dakar.
Nonostante Dakar sia la capitale del Senegal l’aeroporto è incredibilmente piccolo, con un solo nastro per i bagagli e una distesa immensa di borse e borsoni spediti per posta che occupano praticamente tutta la sala degli arrivi.
Entrata da neanche 60 secondi sono stata approcciata da due ragazzi di colore con un malizioso “ça va?”. Qui essere bianchi dà parecchio nell’occhio. Essere una ragazza bianca lo dà ancora di più.
Il tunnel che collega l’uscita al parcheggio si può descrivere come una lunga gabbia di leoni. L’unica differenza è che i leoni sono fuori: un branco di uomini che propongono taxi e altri mezzi di trasporto si sbracciano tra le sbarre di questa gabbia, cercando nervosamente la nostra attenzione.
Per fortuna ci aspettava Pape con la jeep del centro, insieme ad un amico. Ci salutano calorosamente ed iniziano a caricare le nostre valigie nel baule nel miglior tetris possibile, con l’aiuto di un terzo ragazzo, piuttosto silenzioso.
Il perché del suo silenzio divenne ovvio quando ci chiese denaro in cambio del suo aiuto. Non si trattava di uno dei nostri, ma un ragazzo che girava nel parcheggio in cerca di toubab (bianchi) da “aiutare”.
Partiamo diretti a sud, i due neri davanti e noi 4 stipati dietro, con un caldo umido improponibile e uno dei finestrini dietro che non si apriva. Non un ottimo inizio.
Il viaggio è durato circa un’ora, passata tra scene di incredibile povertà lungo una strada di baracche che si ergevano a fatica.

In viaggio da Dakar al villaggio di Kelle
L’alloggio
Dove alloggiamo invece, casa di Severino, non è affatto male. I letti sono coperti da un’impalcatura con una zanzariera e abbiamo a disposizione un armadio di vimini. L’odore di chiuso e umido è davvero pesante, ma il sonno lo è ancora di più, infatti mi addormento in 3, 2, 1…
Il Centro
Questa mattina ci siamo alzati verso le 10. Colazione con pane e marmellata di mango, tè, latte e caffè.
Pape ci ha accompagnato al centro con la jeep. Sembra veramente un centro estivo, non troppo diverso dai nostri. C’è un grande piazzale aperto dove i bambini possono giocare circondato da un porticato da cui si accede alle stanze; due piccole porte da calcio senza rete e due calcio balilla molto ma molto usati.

Centro di accoglienza “Giovanni Quadroni” dell’associazione “I bambini di Ornella”
Tra le stanze c’è un ufficio, le docce, un’infermeria, la camera da letto delle cuoche, uno studio di registrazione e le aule dove i bambini possono fare lezione.
Sul retro, la cui entrata è nascosta da un pannello dipinto come un’enorme bandiera del Senegal, c’è la cucina, che inizio ad esplorare abbastanza allibita. Trovo un frigo coi bordi ammuffiti dal quale esce un odore raccapricciante, un lungo tavolo con panche di legno, un largo lavabo simile a quelli delle lavanderie e due fornelli, il tutto tenuto in piedi con assi di legno e cemento, decisamente alla buona.
Chi ha sete può attingere a 5-6 bicchieri appoggiati al bancone, i quali dopo la bevuta vengono sciacquati e rimessi lì, a disposizione. Ribadisco: di TUTTI!
Adattarsi a questo posto non sarà per niente facile.
Al centro troviamo Baba, uno degli educatori, e suo figlio Manu, un dolcissimo bimbo di 5 anni che continuava a voler salire in braccio e fare la lotta. Non mi ha più mollato fino a quando non ce ne siamo andati.
Il centro purtroppo è ancora chiuso, le lezioni inizieranno a metà ottobre. È comunque aperto per i Talibè, che vengono portati una volta a settimana dai volontari per mangiare, lavarsi, giocare, farsi medicare e prendere vestiti “nuovi”, nonostante di nuovo ci sia rimasto ben poco.
I Talibè

Dhara – scuola coranica in Senegal
I Talibè sono bambini dai 3 ai 15 anni che alcune famiglie scelgono di mandare alle dhare, scuole coraniche gestite da “maestri di vita” chiamati Marabout, per imparare a memoria il Corano e abituarsi a vivere in modo umile e religioso.
Le condizioni in cui vivono sono pessime: dormono per terra e l’unica cosa che li separa dal cemento è una stuoia spessa mezzo millimetro. Non hanno nulla!
In una dhara ci abbiamo trovato persino un pollo legato per una zampa. Le stanze sono senza porte e spesso mancano anche i tetti, aspetto terrificante visto il sole cocente da cui diventa impossibile proteggersi.
E, nonostante il sole, c’è odore di muffa ovunque.
Questi piccoli, detti anche “bambini fantasma“, si procurano da mangiare facendo l’elemosina per il villaggio, girando con una ciotola per le monete e una per il cibo. Questa sarebbe la “lezione di umiltà” che sono costretti ad imparare.
L’unico momento in cui hanno un vero pasto è quel pranzo a settimana in cui qualcuno li va a prendere (questo mese saremo noi) per portarli al centro.

Dhara
Perché solo un giorno su sette? Perché è l’accordo che Severino è riuscito a raggiungere con il Marabout che, di fatto, rappresenta il padrone dei Talibè.
Molti dei bambini stanno a piedi nudi, i più fortunati usano infradito sgangherate, mentre i vestiti sono tutti bucati e sporchi.
Quasi tutti presentano tagli, pustole, punture di insetti infettate e ferite di ogni genere. Per non parlare della scabbia che copre quelle testoline di piccole croste.
Di primo acchito sembrano diffidenti nei confronti di noi bianchi, ma basta farsi due selfie insieme che il ghiaccio è presto rotto. Non hanno molte possibilità di vedere uno smartphone, tanto meno di tenerne uno in mano. Quindi, come ogni bambino del mondo, si sono subito emozionati.

I piccoli Talibè alla scoperta di un selfie
Il giorno più bello della settimana
Caricati tutti sulla jeep li abbiamo portati al centro dove hanno avuto l’unica possibilità di lavarsi in 7 giorni e andare a pesca nel mucchio di vestitini puliti che gli abbiamo preparato.

A caccia di vestiti puliti
Alcuni hanno iniziato a giocare a calcio con dei tappi di bottiglia o la cavalletta di turno, altri si sono appostati più o meno in fila fuori dall’infermeria per le medicazioni, fatte da Filippo e Gianluca. È davvero triste pensare che la miglior possibilità che hanno di curarsi siano due ragazzi volontari che non hanno le competenze per farlo bene.
Alcuni cercano di farsi medicare pur non avendo nulla, per il piacere di ricevere attenzioni anche solo per 5 minuti e provare l’emozione di un lettino da ospedale il quale, per assurdo, è più comodo di qualsiasi cosa su cui si siedono o dormono durante il resto dei giorni.
Io mi sono dedicata al cucito. I Talibè hanno iniziato a coprirmi di magliette e pantaloncini rotti, ognuno cercando la priorità nella fila. Pur non avendo mai cucito in vita mia (disonorando terribilmente le mie nonne), sono riuscita a chiudere i buchi con delle toppe. Quanto quelle toppe resisteranno non posso però garantirlo.

Jess concentrata nel cucito
Verso le 14 le cuoche hanno preparato una montagna di cous cous speziato col pesce, che è stato poi diviso in 4 enormi piatti attorno ai quali si sono riuniti i bambini per mangiare, facendo piccole palline di cous cous con le mani.

Pranzo a base di cous cous
Noi abbiamo mangiato in cucina con gli educatori. Unica differenza: le forchette!
Dopo pranzo i Talibè sono stati riportati alla rispettive dhare, mentre noi siamo andati a fare un giro in spiaggia. L’acqua era inaspettatamente caldissima, così io e Marco abbiamo deciso di fare il bagno cavalcando le onde: i due bambini più felici del villaggio.
30 settembre 23:15
Dopo il bagno siamo stati a Sobo Badé, una sorta di villaggio delle fate a Toubab Dialaw. È un hotel di artisti per i pochi turisti che vengono da queste parti: le stanze costano circa 15€ al giorno ed è decorato come se fosse in una fiaba. Conchiglie appese, acchiappasogni, muri decorati, piante tropicali. Insomma, una figata!
E’ impossibile credere che sia così poco distante dalle dhare, dove la situazione è tutt’altro che magica.
Qui abbiamo trovato Gibi, un tipo davvero interessante che ha vissuto in Italia una decina d’anni e parla perfettamente italiano. Ha due figli a Vicenza, ma non andava d’accordo con la suocera (come biasimarlo) quindi l’anno scorso è tornato in Senegal A PIEDI. Ci ha messo 9 mesi, ma ce l’ha fatta.

Il nostro nuovo amico Gibi
Ci ha presentato i suoi amici, insieme ai quali abbiamo sorseggiato tè verde al basilico, chiacchierato e suonato. Gibi suonava il flauto, un altro ragazzo tamburellava e un altro suonava la calabaza, uno strumento simile ad una zucca (che in spagnolo si dice proprio “calabaza”).
Due ragazzi cantavano ed io ballavo, in una dimensione che si allontanava lentamente dalla realtà, dai problemi, dall’Italia e dalla vita “normale”.
Al tramonto ce ne siamo andati, dandoci appuntamento per l’indomani.
Al momento del ritorno però l’alta marea aveva coperto tutta la spiaggia, così siamo dovuti passare dal paese, illuminando con la torcia dell’iPhone la strada non asfaltata. Data la mancanza di elettricità in quasi tutto il villaggio, il sentiero era al buio più totale.
Niente doccia, solo stelle
L’idea di fare la doccia al centro (per non consumare l’acqua a casa) è saltata causa massiccia presenza di cavallette nei bagni. Da notare che si tratta di cavallette grosse come mani, viste più volte portate al guinzaglio dai bambini con dello spago (letteralmente).
Il karma ha ripagato questo nostro basso spirito di adattamento con l’acqua che scendeva a gocce dalla doccia di casa. E di grazia che scendeva.
Mezzi lavati siamo scesi in spiaggia a goderci un cielo con tante stelle quante se ne possono immaginare, Via Lattea compresa, nitida come se fosse a un metro dalle nostre teste.
Insomma, un cielo che a Milano difficilmente si riuscirà mai a vedere.